UN COMMENTO SULLA PARASHA' DELLA SETTIMANA




Da Yeshayahu Leibowitz sulla parashà di Ki Tetzè una importante riflessione sulla responsabilità.
Cosa è stato determinato nella creazione? Le leggi del creato e la loro ripetuta causalità. Nell’ambito di questa visione deterministica, nella quale qualunque cosa accada è un risultato necessario di ciò che l'ha preceduta, tuttavia l’esito, il risultato (individuale e collettivo), dipende dal libero arbitrio, dal comportamento degli esseri umani, che scelgono se osservare o no la legge. 
Ci sembra appropriato riportare qui una citazione di Leibowitz: “Il libero arbitrio è concesso ad ogni uomo: egli possiede il libero arbitrio di dirigersi sulla giusta strada ed essere giusto e di dirigersi sulla cattiva strada ed essere malvagio… in quanto lui stesso, nella sua mente e nei suoi pensieri, conosce il bene e il male di tutto ciò che desidera, e nessuno gli impedisce di fare il bene o il male” (Maimonide, Regole sulla Teshuvà, capitolo 5).

L’interessante commento di Yeshayahu Leibowitz, è tratto dal suo libro “Accepting the Yoke of Heaven: Commentary on the Weekly Torah Portion”, Urim Publications, 2022 (1° edizione 1990). Il libro è una raccolta di brevi saggi sulla lettura settimanale della Torah, basati sui discorsi radiofonici di 15 minuti che l'autore fu incaricato di tenere nel 1985/86 su Galei Zahal, la stazione radio dell'IDF in Israele.

Buona lettura!

NES Noi Ebrei Socialisti
Gherush92 Comitato per Diritti Umani

Yeshayahu Leibowitz
un commento sulla parashà Ki Tetzè

Tra le numerose mitzvot contenute nella parashà di Ki Tetzè, cercheremo di toccarne due. E dico chiaramente "toccare", perché entrambe hanno implicazioni di vasta portata su problemi estremamente profondi, che possiamo solo accennare.

La prima sembra essere semplicemente una questione tecnica: la mitzvà di costruire un makeh, un parapetto attorno al tetto: "Quando potrai costruire una casa nuova, dovrai fare una protezione al tuo tetto. In questo modo non permetterai che del sangue venga versato in casa tua, qualora qualcuno che cade dovesse precipitare proprio da quel tuo tetto" (Devarim 22,8). Questa è una mitzvà che sembra far parte di un codice edilizio, e il suo scopo è la cautela: prevenire il pericolo per la vita umana. Ma questa questione, che sembra così ovvia, pone interrogativi nell'ambito della fede e dell'etica. I nostri Saggi li hanno già notati e si sono soffermati sulla seconda parte del verso, "qualora qualcuno che cade". Come si può definire una persona "che cade" prima che sia caduta? La Torà ci sta forse dicendo che nessuno cade a meno che non sia stato decretato in cielo che ciò debba accadere, e quindi è considerato uno “che cade” anche prima di cadere? Secondo una visione molto diffusa del concetto di provvidenza individuale, "una persona non alza un dito in basso (cioè sulla terra) a meno che non sia decretato così in alto (cioè in cielo)". Ma se così fosse, possiamo porci questa domanda ovvia: se è stato decretato che la persona cadrà e morirà, a cosa serve il parapetto? E se non è stato decretato, perché avere un parapetto? In accordo con questa visione, il Midrash afferma: "Se qualcuno cade da esso, questa persona è predestinata (o "merita") di cadere fin dalla creazione" del mondo.

Questa considerazione è ciò che viene definito punto di vista deterministico: qualunque cosa accada è un risultato necessario di ciò che l'ha preceduta, e così  all'infinito fino a trovare una causa prima. Cosa ha preceduto ogni cosa? La creazione del mondo per volontà di D-o. Secondo questa visione, la volontà di D-o è che cause ed effetti si susseguano in progressione, con ogni effetto che è causa di ciò che lo segue, fino ad arrivare alla caduta di questa persona dal tetto. Ma se è così, allora non c'è motivo di costruire un parapetto.

Qui ci troviamo di fronte al problema che, fra ebrei e gentili, ha occupato pensatori, sia credenti che filosofi, da tempo immemorabile: la ripetitività della realtà naturale a cui l'uomo appartiene e il libero arbitrio dell'uomo. E si potrebbe dire che è proprio nella formulazione dei nostri Saggi: "questa persona merita di cadere dalla creazione" che troviamo un accenno a una possibile spiegazione. Cosa è stato determinato nella creazione? Le leggi della natura, la causalità della natura. E in termini di questa causalità, questa persona meritava effettivamente di cadere se non presta attenzione, o se chi costruisce la casa non si preoccupa di costruire un parapetto per la sua casa. Se effettivamente cadrà, ciò dipende dal comportamento dell'uomo, e questo non è in contraddizione con la Provvidenza. La Provvidenza si esprime nel fatto che la persona meriterebbe di cadere se non ci fosse un parapetto. Questa considerazione, sebbene la sua validità sia fortemente contestata tra i pensatori filosofici e teologici, è un'apertura alla comprensione di molti aspetti del sistema mitzvot.

Colleghiamo immediatamente questo a un'altra mitzvà, molto  particolare, anch'essa presente  in questa parashà, la cui stranezza era già stata notata dai nostri Saggi, e su cui anche noi dobbiamo soffermarci: la mitzvà del figlio ribelle. Il figlio ribelle non obbedisce al padre e alla madre, ed è per questo che viene lapidato. La Torà orale sembra dare una spiegazione per questo: che egli è "condannato a causa del suo futuro" (cioè, di ciò che alla fine ne sarà di lui). Ma questo è illogico, ed è in totale contraddizione con la concezione di punizione – non solo nella Torà, ma in qualsiasi sistema giuridico: che una persona non venga mai punita per ciò che è tenuta a fare in futuro, finché non ha ancora fatto nulla. La spiegazione data al figlio ribelle per la pena di morte è che "in futuro, questa persona sarà un rapinatore armato": poiché ora, in gioventù, è un ghiottone e un ubriacone e non obbedisce al padre e alla madre, alla fine diventerà un rapinatore armato o un assassino. Eppure, in questo momento non è un rapinatore armato o un assassino, ma è solo un ghiottone e un ubriacone. Dove, allora, troviamo che una persona venga condannata a morte perché temiamo che possa finire male e quindi diventare colpevole di un reato che comporta la pena di morte?

La conclusione del Talmud è molto interessante: "Il caso del figlio ribelle non è mai accaduto e non accadrà mai". La Torà ci dice cosa è giusto che accada, in termini di quella che ci è lecito chiamare giustizia divina. In termini di giustizia divina, dove per D-o il futuro è evidente quanto il presente, questa persona, che alla fine diventerà un brigante o un assassino, merita di morire ora e dovrebbe essere condannata a morte. Ma noi non abbiamo il diritto di applicare la Sua Legge.

E in effetti, quando l'Halakhà discute la legge del figlio ribelle, aggiunge così tante restrizioni da renderne impossibile l'applicazione. Vorrei sottolineare solo un punto, che sembra aneddotico, ma è di profondo significato. Poiché la Torà afferma che il padre e la madre devono portare il figlio in tribunale e dire: "Questo nostro figlio è traviato e ribelle; non dà ascolto alla nostra voce" (Devarim 21,20), e poiché "la nostra voce" è espressa al singolare (piuttosto che "le nostre voci"), l'Halakhà stabilisce che se il padre e la madre non hanno la stessa voce, la legge del figlio ribelle non si applica in quel caso.

Ora, come sappiamo, è irrealistico aspettarsi che un uomo e una donna abbiano voci che suonino allo stesso modo, quindi comprendiamo che la legge non può essere applicata, ma può solo rimanere una minaccia. La persona merita di morire, ma non applichiamo alcuna punizione.
Dovremmo anche notare che la distinzione tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che ci è permesso fare è di vasta portata. È possibile che questa sia la spiegazione più profonda del fatto che la Torà scritta contenga 36 peccati o crimini per la cui violazione la pena è la morte, mentre nella Torà orale tutto questo è di fatto annullato, poiché la pena di morte può essere imposta solo a condizione che ci siano due testimoni che avvertano in anticipo la persona di non compiere tale azione, la informino della pena in caso di disobbedienza e poi la persona risponda che intende compiere l'azione a prescindere, il che rende la pena di morte al di fuori dell'ambito del realistico. Lo stesso vale per le lesioni personali. La Torà afferma: "…gli si dovrà fare ciò che egli ha causato all’altro ... un occhio per un occhio, un dente per un dente..." (Vaikrà 24,19-20), eppure l'Halakà stabilisce che il risarcimento è monetario: chi ferisce un altro deve pagare per il danno, il dolore, le spese mediche, l'incapacità (di lavorare) e l'umiliazione. In termini di giustizia divina, il popolo meritava di essere trattato come aveva fatto ai propri simili, ma non ci è permesso agire in conformità con la giustizia divina. Pertanto, senza minare la Torà scritta, la Torà orale pone così tante restrizioni che non può essere applicata come tale.

Vorrei ricordarvi che qualche settimana fa ho avuto l'opportunità di applicare il concetto di "dovrebbe" o "merita di essere" (o "dovrebbe essere") a un altro argomento, le profezie sul futuro: "Un profeta predice solo ciò che deve accadere". Il profeta presenta un futuro per il quale bisogna impegnarsi e che si deve cercare di realizzare, senza alcuna garanzia che ciò si realizzi effettivamente. Il termine "merita" (o "dovrebbe") si riferisce alle mitzvot, alla legge e alla giustizia, e alla previsione del futuro. Ogni profezia merita di avverarsi, e dipende dall'uomo se ciò che merita di accadere accadrà o meno.
(Yeshayahu Leibowitz)


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Data: 2025-09-05
Autore: NES Noi Ebrei Socialisti

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