UN COMMENTO SULLA PARASHA' DELLA SETTIMANA
Come spiega Yeshayahu Leibowitz in questa lezione, nella prima parte dello Shemà tratta dalla parashà Vaetchannan, l'amore per l’Eterno è una richiesta assoluta e categorica che viene fatta all’uomo, senza promessa di ricompense o sanzioni. Invece, nella seconda parte dello Shemà, tratta da Ekev, amare e servire l’Eterno è una richiesta strumentale, legata alla promessa di ottenere o perdere qualcosa. Queste due richieste, che esprimono l’obbligo di amare e servire l’Eterno, sono differenti, persino opposte; la prima è incondizionata, la seconda condizionata; eppure sono inseparabili nell’ebraismo.
Volendo, si può osservare anche che mentre la prima richiesta, incondizionata, di amare l’Eterno è espressa nella seconda persona singolare, riguarda il rapporto personale dell’uomo con l’Eterno “e amerai il Signore D-o tuo”; la seconda è espressa nella seconda persona plurale al condizionale “Se ascolterete i miei precetti che io vi prescrivo oggi, di amare l’Eterno, …. Io garantirò …” e pertanto interessa la collettività nel suo insieme, il funzionamento della società regolata dalla Legge. Entrambe dimostrano che ciò che conta è l’osservanza delle mitzvot.
L’interessante commento di Yeshayahu Leibowitz alla parashà di Ekav, è tratto dal suo libro “Accepting the Yoke of Heaven: Commentary on the Weekly Torah Portion”, Urim Publications, 2022 (1° edizione 1990). Il libro è una raccolta di brevi saggi sulla lettura settimanale della Torah, basati sui discorsi radiofonici di 15 minuti che l'autore fu incaricato di tenere nel 1985/86 su Galei Zahal, la stazione radio dell'IDF in Israele.
Buona lettura!
NES Noi Ebrei Socialisti
Gherush92 Comitato per Diritti Umani
Data: 2025-08-14
Yeshayahu Leibowitz
un commento sulla parashà Ekev
Uno dei capitoli di Ekev, parashà dai molteplici argomenti, è quello di "Vehaya im shamoa", "se ascolterete" (Devarim 1,13-21), che corrisponde alla seconda parte dello Shemà, mentre la prima si trova nella precedente parashà di Vaetchannan.
Queste due parti, insieme a quella degli tzitzit, formano l'intero Shemà, la prima mitzvà della Torà orale, che stabilisce il programma della vita in conformità con la Torà e le mitzvot, e che inizia proprio con "Da quando si recita lo Shemà della sera?"
Bisognerebbe spendere qualche parola sul legame tra le prime due parti dello Shemà, che insieme costituiscono la dichiarazione di fede dell'Ebraismo. C'è una sostanziale differenza fra le due parti, non solo sono due mondi diversi, ma sono anche opposti, eppure provengono dalla stessa fonte e sono posti uno accanto all'altro nello Shemà.
Quando parlo della prima parte, non mi riferisco necessariamente al primo verso, che è la nostra dichiarazione di fede "Ascolta Israele, l’Eterno è il nostro Signore, l’Eterno è uno", ma al secondo, che contiene, in un certo senso, la parola chiave del comportamento (conforme alla fede): "E amerai l’Eterno, il tuo Signore, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" (Devarim 6,5), l'amore per D-o come richiesta assoluta. Questa richiesta non deriva da qualcos’altro ma esiste di per sé; non viene fornita alcuna ragione per la mitzvà di amare D-o, né è rafforzata da sanzioni. Non dice: "Se osservi quanto segue, sarà un bene per te, e se, D-o non voglia, non lo osservi, sarai punito". Questa mitzvà è valida in sé e per sé. Nel linguaggio filosofico, una tale mitzvà è definita categorica. Sul significato della mitzvà, e sul verso "amerai il Signore D-o tuo", alla quale non è legata alcuna promessa, la più grande figura della Torà orale, Rabbi Akiva, fece il suo celebre commento: "con tutta la tua anima" anche se Egli ti togliesse l'anima (cioè la vita).
L'esatto opposto della connotazione del primo paragrafo dello Shemà è il secondo paragrafo, Vehayà, in cui vengono fornite spiegazioni e argomentazioni a favore della mitzvà di amare D-o e di servirLo. Anche questo verso menziona l'amore per D-o, "Ora, se voi ascolterete i Miei precetti, che Io vi prescrivo oggi, di amare l’Eterno, il Vostro Signore e di servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima" (Devarim 11,13), ma qui ci viene fornita una ragione e l'osservanza della mitzvà è rafforzata da sanzioni. Lo stesso "se" all'inizio ("se ascolterete"), e lo stesso "affinché" più avanti ("affinché il vostro cuore non vi seduca") indicano che esiste un'alternativa alla violazione di questa mitzvà, con tutto ciò che ne consegue. In questa seconda parte, l'accettazione del Giogo del Cielo, della Torà e delle mitzvot, sembra essere posta in modo utilitaristico: "Se ubbidirete... io darò la pioggia per la vostra terra a suo tempo... fate molta attenzione, che il vostro cuore non vi seduca... e allora l’ira dell’Eterno si accenderebbe contro di voi, ed Egli bloccherebbe i cieli e non ci sarebbe più la pioggia... e sarete presto perduti da sopra la buona terra..." (Devarim 11,13-17).
Se la prima parte dello Shemà rappresenta la fede di Rabbi Akiva, che morì santificando il nome di D-o, la seconda parte sembrerebbe presentare il punto di vista di Elisha ben Avuya, un uomo che un tempo era stato collega di Rabbi Akiva, ma che in seguito era diventato noto come Acher. E un racconto, che potrebbe non essere storico ma che comunque ha un significato profondo, spiega come un Tannà, un grande studioso della Torà, Elisha ben Avuya, divenne Acher, "l'altro" il cui nome non è più menzionato. Ci viene raccontato che una volta Elisha ben Avuya stava camminando vicino a un frutteto, dove il proprietario del campo disse a suo figlio di arrampicarsi su un albero fino al nido di un uccello, dove avrebbe dovuto mandare via la madre uccello e prendere le uova. Il bambino fece come gli era stato comandato dal padre, o, in altre parole, adempì due mitzvot: onorare il padre e mandare via la madre uccello – di entrambe queste mitzvot la Torà afferma: "affinché si prolunghino i tuoi giorni". Ma il bambino cadde dall'albero e morì.
Elisha ben Avuya esclamò allora: "Dov'è la lunga vita di costui?", e divenne Acher (l’altro).
Si potrebbe dire che, a differenza di Rabbi Akiva, che spiega "con tutta l'anima" riferendosi anche a quando Egli ti toglie la vita, Elisha ben Avuya intendeva la fede nei termini che sembrano presentarsi nella seconda parte dello Shemà: se ascolti, sarà un bene per te. Eppure qui vide che non era così.
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Come dobbiamo interpretare la giustapposizione dei due passi e la loro inclusione nella mitzvà dello Shemà? Ci si può riferire ai due concetti che esistono nell’ebraismo, e che sono entrambi legittimi: lishmà (per se stessa) e shelò lishmà (non per se stessa). Sono due modi di servire D-o, e la Torà li riconosce entrambi. In termini tratti dal mondo filosofico, si può dire: fede e Torà il cui significato è deontologico, e fede e Torà il cui significato è consequenzialista. La prima parte dello Shemà è un'espressione della "Torà per se stessa", ovvero l'amore di D-o senza significato strumentale, il cui scopo è contenuto in se stesso. Pertanto non viene fornita alcuna motivazione e non ci sono sanzioni. Se si fosse stati in grado di fornire una motivazione, avrebbe perso il suo significato di comando categorico, di qualcosa che una persona accetta perché ne vede il valore in sé. Ma non tutti ne sono capaci.
Conosciamo il detto di Maimonide, secondo cui la Torà permetteva di servire D-o e di osservare le mitzvot con la speranza di essere ricompensati, e di astenersi dal peccato per timore della punizione. È a queste persone che si rivolge il secondo paragrafo dello Shemà. Anche un ebreo credente, che osserva la Torà e le mitzvot nello spirito del "Vehaya im shamoa", della seconda parte dello Shemà, è un ebreo retto. Ma lo scopo della fede non sono i risultati che derivano dal fatto che c'è la fede, ma la fede stessa. Ed è questo che esprime il primo paragrafo dello Shemà, ed è per questo che Rabbi Akiva ha dato la sua vita.
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L'amore, il timore e l’ubbidienza al Creatore sono intrecciati e non possono essere separati, e questo è il senso del contenuto delle due parti di Vaetchanan ed Ekev.
Così vedremo nella parashà di Reè: Amare il Signore tuo D-o è osservare i Suoi precetti, i Suoi statuti, i Suoi giudizi e le Sue mitzvot. E così riassumeva Maimonide: tutto ciò che la Torà intende è diretto verso un unico scopo, e cioè ubbidire al Creatore. E questo scopo è raggiunto con la pratica delle mitzvot.
(Yeshayahu Leibowitz)
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Data: 2025-08-14
Autore: NES Noi Ebrei Socialisti
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